Emilio Rebecchi: L’uccisione a Casa Dolce di Casalecchio di Michael Passatempi
Con il titolo “Psichiatria oggi: in memoria di Michael” è stato pubblicata su “Inchiesta”, 177, luglio-settembre 2012, pp. 41-47, la denuncia dello psichiatra bolognese Emilio Rebecchi che riproduciamo integralmente.
Per chi suona la campana di Hemingway comincia con una poesia di John Donne, che riporto integralmente: “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare, la terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo all’Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: Essa suona per te.”
Il Corriere di Bologna di domenica 2 settembre 2012, riporta la notizia del decesso di un disabile psichico (sic.) ventenne sotto il titolo “Morte a Casa Dolce. Il 118: Nessun ritardo nella rianimazione”. Leggiamo insieme: “Nella relazione degli operatori del 118 si legge che le manovre per tentare di rianimare Michael Passatempi sono iniziate immediatamente. Dunque lunedì sera non ci sarebbero stati ritardi nei soccorsi al disabile psichico ventenne deceduto nei locali di Casa Dolce, struttura protetta per disabili psichici, in seguito a un intervento degli operatori della cooperativa chiamati a gestire una sua crisi; a quanto pare il ragazzo aveva dato in escandescenze perché non voleva restituire la playstation con cui stata giocando. L’Ausl ieri ha ribadito in una nota che “gli elementi in proprio possesso, già messi a disposizione dell’autorità giudiziaria, smentiscono i dubbi sollevati” sull’operato dei paramedici del 118. Questi, secondo il presidente della cooperativa Dolce (…) ”erano stati chiamati per un TSO, quando la crisi di Michael era ancora in corso, e in un primo momento non sono intervenuti per sedare Michael. Poi hanno cercato di rianimarlo quando i nostri dipendenti hanno segnalato un’anemia del ragazzo. Ma non c’è stato nulla da fare. (…) L’indagine del PM(…) si concentra sui tre operatori sociosanitari della cooperativa Dolce che sono indagati per omicidio colposo. Secondo l’autopsia, non ancora depositata, il ragazzo è morto per asfissia meccanica. La presenza di minuscole ecchimosi e di piccole emorragie sottocutanee, emerse durante l’esame autoptico, parrebbe confermare l’ipotesi di uno schiacciamento del torace del giovane da parte dei dipendenti della Dolce, una donna e due uomini, uno dei quali si sarebbe seduto sul corpo steso a terra di Michael, con modalità che dovranno essere valutate alla luce dei protocolli in vigore: per interrompere le crisi di certi pazienti è possibile farlo all’altezza del bacino, ma è pericoloso sul torace. (…)”. Quelli immediati. Il giovane Michael vuol continuare a giocare con la playstation. Evidentemente il regolamento (o la consuetudine) della Casa Dolce non lo consentono. Gli operatori si impongono, ma il giovane non cede. Si apre quindi uno scontro di potere. L’autorità, le regole, le leggi e il desiderio “colpevole” del soggetto che a queste regole e a questa autorità si oppone. Possiamo facilmente immaginare uno o più scenari in cui questo avviene. “Basta adesso,metti via la playstation”. “No, dopo” oppure “No, è mia”. “Dacci la playstation”. “No, mai” e via dicendo. Conflitti un tempo frequenti fra genitori e figli; oggi più rari, ma ancora possibili. Un conflitto che però non oppone un adulto a un bambino,ma un adulto (un gruppo di adulti, un gruppo di operatori) a un giovane uomo che soffre per disturbi psichici (non meglio precisati), probabilmente un ritardo mentale conseguente a pregresse patologie o alterato sviluppo. La reazione di Michael all’imposizione, all’affermazione del potere non è quindi scontata, non è quella di un bambino, ma di un adulto con problemi, di un adulto con una soggettività senz’altro fragile, senz’altro conflittuale, complessa.
Il mondo degli operatori affronta il mondo della persona sofferente: è un incontro difficile, richiede molta attenzione da parte degli stessi operatori, una capacità di cogliere le proiezioni, di decodificare l’azione. E quindi di non rispondere con un’azione ad un’azione, a un atto di guerra con un contrapposto atto di guerra, ma di tendere alla pacificazione, alla diminuzione della tensione. Etcetera. Purtroppo quel giorno, presso la cooperativa Dolce di Casalecchio, ciò non avviene. La tensione si aggrava e si giunge alla colluttazione, allo scontro fisico. E qui apprendiamo una notizia sconvolgente. Esisterebbero dei protocolli per interrompere con la forza la crisi dei pazienti. Ci riferisce infatti l’articolista: “è possibile farlo all’altezza del bacino, ma è pericoloso sul torace”. Non solo quindi il giovane Michael deve sottostare alle regole, ubbidire, consegnare la playstation, ma, di fronte al rifiuto si può ricorrere alla forza fisica. Secondo un protocollo, ma sempre di forza fisica si tratta. Il potere non accetta di discutere. Impone. Costringe chi si oppone alla resa. E quindi chi si oppone si configura come un nemico e il rapporto tra operatori e pazienti, come un rapporto di scontro, a volte di scontro violento. Un atto di forza. Michael infatti muore; perché non viene applicato correttamente il protocollo, perché invece di sedersi sul bacino l’operatore si siede (sic.) sul torace del poveretto, e lo soffoca mortalmente. Minuscole ecchimosi e piccole emorragie sottocutanee lo testimoniano.
Una riflessione si impone. Perché siamo giunti a questo? Perché notizie simili compaiono e poi finiscono rapidamente nel cimitero delle informazioni? Perché l’opinione pubblica sorvola, non vede? I problemi sono tanti e gravi, così si obietterà, la crisi travolge tutto. Come ci si può soffermare su un singolo caso, e per di più di un sofferente mentale? Ma la verità è nel singolo caso. La verità di Michael è la verità. Se torniamo indietro nel tempo, a quel periodo, oggi così criticato degli anni ’60 e ’70, al famoso ’68 o ’69, agli anni delle lotte per la salute, per la riforma sanitaria, per la riforma psichiatrica, una vicenda come quella di Michael sarebbe stata all’origine di assemblee, avrebbe avuto risalto sui giornali, sarebbe diventata un “fatto politico”. Cioè un fatto che riguardava tutta la società, che richiedeva l’intervento di tutti. Oggi è solo una notizia di cronaca. “Sono fatti che succedono…purtroppo”. I decenni intercorsi da allora ad oggi hanno profondamente modificato l’opinione pubblica, la coscienza dei cittadini, le prospettive politiche. Allora vi era una tensione alla liberazione, alla creazione di un mondo diverso. Utopie, oggi si dice. Non sono utopie. Ancora ricordo, credo fosse il ’69, ed io ero un giovane medico, un’assemblea all’Università di Bologna, introdotta da Minguzzi, e in cui parlò Basaglia. Ancora ricordo la tensione profonda, il contenuto di liberazione che usciva attraverso le parole (e il timbro di voce, il sentimento trasmesso) di uno psichiatra che metteva in discussione il manicomio, che dimostrava l’esistenza di un nesso tra sfruttamento e destino dei malati di mente, che cercava alleanza, tra gli operai, gli studenti, gli intellettuali per modificare la realtà, per disfare i manicomi, per creare una società più democratica. Ancora ricordo la grande partecipazione non solo dei tecnici,ma della “gente comune”, alle assemblee, negli ospedali, nei quartieri, nelle sedi dei partiti politici, per realizzare la riforma psichiatrica. Ed assemblee per la salute nell’ambiente e nei luoghi di lavoro, per la prevenzione (come si diceva allora), per la riforma sanitaria. Ricordo un incontro dell’allora sindaco di Bologna Imbeni, del sottoscritto e di altri con Clinton, governatore dell’Arkansas e non ancora presidente, che voleva precisissime informazioni su ciò che facevamo in Italia per la riforma sanitaria. Ricordo un’intervista di professori newyorkesi sull’organizzazione delle Usl o sulla riforma sanitaria. Come poteva l’Italia battersi per obiettivi così avanzati? Nel decennio seguente (‘80/’90) si costituirono i pilastri della riforma sanitaria (e psichiatrica), pilastri che ancor oggi sostengono le strutture portanti dell’intervento pubblico.
Ma già nella seconda metà degli anni ’90 e poi nell’ultimo decennio si avvia una controriforma; la cosiddetta aziendalizzazione viene usata come grimaldello per trasformare l’intervento pubblico e riportarlo progressivamente verso il privato. Molti interventi sanitari vengono ridotti, alcuni – soprattutto gli interventi preventivi – addirittura spazzati via. In questo contesto anche l’attività psichiatrica viene pesantemente ridimensionata, sia in ambito preventivo (igiene mentale), che curativo e riabilitativo. Molti interventi promessi non vengono realizzati, altri vengono interrotti, altri spostati verso il privato. Una delle chiavi per la privatizzazione è rappresentata dall’affidamento alle cooperative di fette sempre crescenti di lavoro prima svolto dal pubblico. Le cooperative costano meno – così si dice – e il personale più sensibile; con le cooperative si risparmierebbe e si migliorerebbe la qualità dell’intervento. Un intervento, per altro, quasi sempre sostitutivo, e non aggiuntivo, rispetto alla tradizionale azione pubblica. Così i manicomi, gli ospedali psichiatrici (quasi sempre pubblici) vengono sostituiti (parzialmente) da strutture in buona parte di privato sociale, le cooperative appunto. Al posto del personale pubblico vi è un nuovo personale privato. Il problema della formazione del personale, già carente nel pubblico, diviene gravissimo. L’intervento è demandato a giovani lavoratori, che devono apprendere lavorando, in carenza di formazione teorica e di supervisione. Fanno ovviamente quello che possono. Spesso dei miracoli. Ma le nazioni non possono progredire durevolmente basandosi sui miracoli…
Nel frattempo avviene una profonda rivoluzione culturale che interessa tutto l’ambito psicologico e psichiatrico. Le vecchie prospettive fenomenologiche e psicodinamiche vengono sostituite da nuove prospettive funzionalistiche, di chiara derivazione americana. Si afferma una cultura sempre più positivista e biologista, con uso abbondante di farmaci “calmanti” e di cosiddetti protocolli comportamentali. Via via si spegne il tentativo di comprendere la persona sofferente per problemi psichici, e si sviluppa una strategia tesa al controllo, al condizionamento, alla “educazione”. Educare, guidare i malati di mente invece di comprenderli; sedarli, in qualche modo farli tacere. Non debbono disturbare, non debbono scandalizzare. Il silenzio torna a scendere su di loro. È in questo contesto, in questo momento storico, che il povero Michael incontra il suo destino. Non può giocare troppo a lungo con la playstation. Deve consegnarla agli operatori, deve ubbidire, conformarsi. Certamente ha dei problemi, non voglio qui approfondire la clinica – non è il caso – e neppure sostituirmi ai giudici, che dovranno pronunciarsi sull’accaduto, su quale malattia, sull’appropriatezza delle cure, ecc.
Voglio solo ricordare, ed affermare, che non può esistere un protocollo che preveda l’intervento sull’addome del poveretto al posto del torace. Voglio solo dire che è necessario riaprire il discorso sui disturbi mentali, sulla loro cura, sul rapporto fra i sofferenti psichici e la società in cui vivono. Nei campi di concentramento finivano ebrei, comunisti, zingari e malati di mente. Non vogliamo che accada mai più.
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